L’epoca del ritiro. Seconda parte: i nostri ragazzi




Come psicoterapeuta ma soprattutto come insegnante ho avuto modo di sentire parecchie ragazze e parecchi ragazzi, di incontrarli in videochiamata, di trascorrere delle ore con loro e di assistere alle vicissitudini attraverso le quali la dimensione del Covid si installava nelle loro menti e nelle loro vite. All’inizio i ragazzi, come molti di noi, non hanno capito, non hanno colto la gravità del pericolo. Per loro la chiusura delle scuole era una festa inaspettata, una meravigliosa occasione per incontrarsi nei parchi, nelle discoteche, nei pub o per le strade del quartiere senza orari, senza compiti, senza la faticosa scansione della giornata scolastica. Era cominciata una magnifica festa, sostenuta dalle illusioni di chi sosteneva che si trattava semplicemente di un’influenza e di chi pensava che per loro sarebbe stato persino opportuno prendere un po’ di anticorpi. Per questo i ragazzi erano felici e godevano all’idea che, una settimana dopo l’altra, le scuole rimanessero chiuse. Ho fatto davvero fatica a convincerli con insistenti e accorati messaggi a rimanere a casa: all’inizio, i più giovani specialmente, non mi volevano ascoltare: “Prof. quello che dice purtroppo è vero, la situazione è tragica, ma per noi giovani è straziante stare a casa” “Lei come trascorre il suo tempo? Scusi l’interesse no, perché io dopo un po’ che sto sul letto col telefono mi rompo” “Prof… tutti i miei fidanzati mi aspettano..” Madonna prof…ma io adesso mi ammazzo”.

Poi hanno capito. Il contagio si è diffuso, le malattie e le morti sono divenute sempre più frequenti soprattutto fra i nonni, quei nonni cui loro sono sempre stati legati. Hanno parlato con noi e con i genitori hanno realizzato il rischio e sono stati a casa. E la casa all’inizio è stata, sorprendentemente, una scoperta piacevole, almeno nelle famiglie più sane. In famiglia si sono preparate pizze e dolci, ritrovando, in cucina, quella vicinanza altrimenti assai rara nella routine quotidiana del lavoro. Coi genitori si sono condivisi film e serie televisive, giochi da tavolo e, a volte, persino videogiochi. Pietro un giovane studente universitario ha scritto la cosa più divertente:[1] “L’unica nota positiva di questa quarantena forzata è che sto conoscendo una coppia di mezza età che vive con me e i miei fratelli. Dicono di essere i miei genitori, si impegnano, paiono brave persone”.

Ma col tempo tutto diventa più difficile. I ragazzi hanno bisogno di uscire di incontrare gli amici e di vivere. Appartengono a una fascia di età che tollera più difficilmente delle altre la reclusione. E, se nelle famiglie serene, tutto si risolve con i nervi che vanno a fior di pelle e con qualche litigio di troppo causato dall’insofferenza reciproca, nelle famiglie critiche la situazione diviene assai complessa: dopo aver retto per qualche settimana ora i ragazzi non ce la fanno più. Nei colloqui affiora una tensione crescente, alcune giovani si incidono al pelle con dei tagli per abbassare il livello di stress, altri cercano pericolosissime fughe da casa (ben diverse da quelle piene di speranza e di avventura che caratterizzavano la generazione dei baby boomer degli anni Sessanta), in alcuni casi la disperazione di fronte a incessanti conflitti famigliari arriva fino al rischio suicidale.

È difficile aiutare questi ragazzi: le videochiamate stanno diventando indispensabili per molti di loro, ma c’è poco altro. I legami coi compagni e cogli amici tendono a perdere di intensità aumentando la sensazione di anomia. Il contatto con gli insegnanti e con le attività scolastiche (di cui parleremo la prossima volta) invece di essere un modo per mantenere il ritmo vitale diviene, a volte, qualcosa di burocratico e di controllante che non aiuta. E loro restano soli. Oggi la popolazione a rischio è quella degli ultrasettantenni e le istituzioni debbono occuparsi innanzitutto di loro, ma verrà un momento in cui dovremo raccogliere anche il dolore di questi ragazzi la cui adolescenza rischia di portare i segni dell’isolamento e della reclusione.



[1] Si tratta del figlio di una mia collega. La cosa è stata poi riportata da Elisabetta Andreis in un articolo comparso sul Corriere della sera il 3 aprile 2020.

Commenti

Post popolari in questo blog

Per la morte di un professore

Palea est