Per la morte di un professore

 Per la morte di un professore



 Abbiamo lavorato a un libro riflettendo sulle ragioni che spingono alcuni soggetti (quasi sempre adolescenti) a aderire a percorsi estremi di radicalizzazioni. 

Ecco qualche ulteriore riflessione sugli episodi di Parigi e di Nizza. La pubblichiamo mentre si susseguono notizie anche da Vienna.


Lo scorso giovedì 16 ottobre, a Conflans-Sainte- Honorine, una tranquilla cittadina alla periferia di Parigi il prof. Samuel Paty, 47 anni, padre di un bambino di cinque, incontra il suo assassino: il diciottenne Abdullah Abouyedrivich Anzorov un giovane ceceno giunto in Francia all’età di sei anni.  Abdullah, armato di un coltello dalla lama di circa 30 centimetri, decapita la sua vittima per poi infierire ripetutamente sul corpo e sulla testa recisa al grido di Allah Akbar. Qualche minuto dopo Abdullah posta su Twitter un messaggio rivendicativo rivolto al presidente francese Macron “Nel nome di Allah il misericordioso (…) a Macron, il capo degli infedeli: Io ho sentenziato uno dei tuoi cani infernali che ha osato umiliare Maometto. Tieni a bada i tuoi accoliti prima che non vi sia inflitto un duro castigo”. Poco tempo dopo il giovane assassino viene individuato dalle forze speciali colpito con nove proiettili e ucciso. Non indossava alcun ordigno esplosivo.

Qualche tempo prima, il 7 ottobre, il padre di un’allieva tredicenne di Paty pubblica su Facebook un primo video nel quale dichiara la sua indignazione: il professore ha mostrato in classe la caricatura del profeta Maometto nudo avendo chiesto agli allievi musulmani di uscire se non ritenevano di vedere quell’immagine; la figlia si sarebbe ribellata e sarebbe stata allontanata. Il giorno dopo, l’otto ottobre, il padre pubblica un secondo video dai toni ancora più violenti, definisce “delinquente” Paty e indica la scuola ove i fatti sono avvenuti. Infine, il 13 ottobre, in un terzo video compare un nuovo personaggio: Abdelhakim Sefrioui un attivista radicale propalestinese e antisionista legato al collettivo Cheikh Yassine (un fondatore di Hamas); la giovane ragazza riassume nuovamente i fatti dichiarando che anche gli allievi non musulmani erano rimasti scioccati per le scelte del professore.  Non è possibile, tuttavia, stabilire con precisione il succedersi degli eventi perché (a quanto ricostruito da Le Monde) in quei giorni (il 5 e il 6 ottobre) la ragazza risulta ufficialmente assente e la sospensione comminata “non ha alcun legame” con la vicenda delle immagini di Maometto. In ogni caso i video postati in rete arrivano fino al quartiere popolare di La Madeleine, a Evreux ove Abdullah Anzarov risiedeva.  Una moschea ove predica un imam di ispirazione salafita diffonde il primo video e il gioco è fatto.

Il 29 ottobre intorno alle nove la Francia è sconvolta da un secondo atto di terrorismo efferato: un uomo entra nella chiesa di Notre Dame a Nizza, uccide una donna cercando di decapitarla, accoltella poi a morte il sacrestano e ferisce un’altra donna che cercherà invano la fuga morendo di lì a poco. L’assassino, ancora una volta, è un giovane, Brahim Aoussaoui un ragazzo tunisino di 21 anni sbarcato in Sicilia il 20 settembre. Le cronache raccontano che dopo essere stato ferito dai proiettili della polizia Brahim continuasse incessantemente a gridare “Allah Akbar: Allah è grande”. Non si tratta di episodi isolati: ad Avignone un uomo armato di coltello è stato ucciso mentre urlava Allah Akbar, a Gedda un uomo è stato assalito all’interno dell’ambasciata francese. Siamo quindi di fronte a un cluster, a una catena di eventi che vedono la Francia come bersaglio dell’estremismo islamico. Sullo sfondo ovviamente, c’è l’altro attentato di Nizza, le vicende di Parigi e la questione di Charlie Hebdo: il primo settembre 2020, in occasione dell’inizio del processo contro gli attentatori nel quale morirono 14 parsone, la rivista satirica ha deciso di ripubblicare le vignette da cui tutto era partito. 

Il presidente francese Macron ha reagito con fermezza dichiarando che, d’ora in avanti, “dovranno essere gli islamisti radicali ad aver paura” e difendendo il principio etico della cultura laica e della libertà di espressione come valore fondante del suo Paese e della cultura occidentale contro la barbarie e la violenza dell’estremismo. D’altro canto, però, il presidente turco Erdogan ha parlato, a proposito delle vignette di Charlie Hebdo, di offesa al mondo islamico e ha paragonato la condizione dei musulmani a quella degli ebrei durante il nazismo in Germania. Si pongono quindi le premesse per una guerra di religione che non solo è anacronistica e drammaticamente inopportuna in un mondo che deve affrontare la minaccia pandemica, ma che, forse non centra neppure il problema.

Infatti,  alla narrazione di queste tragiche vicende manca ancora di un tratto fondamentale: cha cosa ha convinto Abdhllakh Anzarov e Brahim Aoussaoui a porre mano a un coltello e a farsi protagonisti delle loro orrende carneficine? Se osserviamo le loro storie, non possiamo fare a meno di venir colpiti da alcuni tratti significativi che li accomunano: è vero: entrambi non sono, a differenza di altri attentatori, cittadini francesi perché Abdullah è ceceno e Brahim tunisino. Il primo è giunto in Francia all’età di sei anni, il secondo è sbarcato a Lampedusa soltanto da un mese e mezzo.  Il primo viene descritto come un adolescente taciturno e con pochi amici; sconosciuto alle forze dell’ordine, aveva fatto parlare di sé in occasione di alcune piccole malefatte (danneggiamento di beni pubblici e poco altro), era amante degli sport da combattimento. L’unico elemento che conduce ad una radicalizzazione risale a circa sei mesi prima dell’attentato quando Abdullah apre un account Twitter con il nickname di Al-Ansar@tchétchène. Nelle ultime settimane pubblica più di 400 tweet con commenti su fatti di attualità e citazioni dal Corano. Sarà su quell’account che Abdullah pubblicherà anche l’ultimo suo messaggio a commento delle foto con la testa mozzata del professor Paty. 

Noi non possediamo le informazioni di cui dispongono le autorità investigative francesi ma la dinamica dell’attentato fa pensare a qualcosa di molto artigianale. Quando Abdullah arriva a Conflans-Sainte- Honorine partendo da Evreux (un’ottantina di chilometri, poco più di un’ora di macchina) conosce l’indirizzo della scuola ma non sa che faccia abbia Samuel Paty. Comincia a chiedere in giro, ha in tasca qualche centinaio di euro e, in questo modo, convince alcuni ragazzi a indicargli la vittima. Nessuna organizzazione terroristica progetterebbe un attentato agendo con questa goffaggine: è probabile che Abdullah sia un lupo solitario, radicalizzatosi da pochissimo tempo, carico di una rabbia senza nome che aspettava di esplodere. 

Brahim invece è venuto in Italia con un barchino, in un giorno nel quale a Lampedusa sono sbarcate quasi trenta persone tutte poi convogliate sulla nave Rhapsody ove circa quattrocento soggetti avrebbero trascorso il periodo di quarantena. Di questi, alcuni vengono destinati al rimpatrio (perché segnalati dalle autorità come pericolosi) altri - per lo più minorenni – vengono inviati in case di accoglienza e altri ancora, tra cui il nostro Brahim, in merito al quale non risulta nulla, ricevono un decreto di respingimento da eseguire in una settimana ma, nel frattempo, vengono posti in libertà. Sulla nave Brahim effettua molte telefonate ma non trapela nessuna intenzione violenta. Così come non si segnala (almeno per ora) nessuna traccia sciura relativa a contatti con l’islam estremista. Quando, intorno al 25 ottobre, Brahim parte per la Francia nessuno immagina le sue intenzioni ed è terribilmente difficile ripercorrere il suo processo di radicalizzazione. Si dubita che sia avvenuto in Italia in un tempo così breve ma è anche vero che questa ipotesi potrebbe non essere così infondata.

Cosa vogliono dunque questi ragazzi? Cosa volevano? È difficile pensare che in loro albergasse un progetto politico sia pure estremo come, per esempio, quello dei brigatisti rossi in Italia: Abdullah e Brahim non vogliono cambiare il mondo e non cercano proseliti. Non sono neppure paragonabili a quel Mohammed Atta, cervello dell’attentato alle Torri Gemelle che, frequentando campi militari e organizzando meticolosamente un’azione accuratamente coordinata ha dirottato gli aerei provocando la strage più famosa della storia recente. I due ragazzi non sembrano avere. prima della radicalizzazione, una particolare cultura islamica fondamentalista: si trasformano in un periodo di tempo breve e poi agiscono da soli o comunque in modo molto estemporaneo. Hanno però alcuni tratti: in primo luogo, una rabbia infinita e senza nome che si traduce nel modo con il quale infieriscono sui cadaveri delle loro vittime senza alcuna pietà. In secondo luogo, sentono intero il rancore sordo per un’esistenza tutta fallita e senza speranze, provano una tremenda  umiliazione e hanno bisogno di un nemico su cui proiettare la colpa. Costretti inoltre a vagabondare da una patria all’altra hanno bisogno di trovare una definizione, qualcosa che dia senso all’insensatezza della loro vita. La predicazione islamica fornisce loro esattamente questo: un nemico e una collocazione. I due scoprono che, se non nella vita, almeno nella loro morte sarà possibile trovare una narrazione, un senso e una definizione. Tanto più che un’azione eclatante e mostruosa - e questo è il terzo punto -   fornirà loro quel riscatto mediatico che li solleverà dalla posizione di un anonimato triste fino al  paradiso immaginario n del riconoscimento universale in Rete: Abdullah posta continuamente messaggi: Brahim è sempre connesso allo smartphone, entrambi vivono con indignazione la ripubblicazione delle vignette  e l’ostentato laicismo di Charlie Hebdo, ma soprattutto sanno che, dopo morti, un coro di ammiratori tesserà le loro lodi e condividerà l’ammirazione per il loro gesto. Ed ecco allora che un ragazzino fallito solitario e senza futuro potrà persino permettersi di sfidare in un combattimento mediatico addirittura Macron, il capo degli infedeli, come se fosse alla playstation. E un povero migrante senza un domani e senza una patria sarà riconosciuto nella sua terrificante dimensione immaginaria. 

Che importa se questo comporta la morte? Cosa muore in fondo? Un corpo destinato al silenzio e al nulla, quando, invece, gli sopravviverà immortale l’immagine del martire e del combattente. È questo, in fondo, l’ultimo elemento in comune: i due volevano morire. Dopo un gesto del genere non ha senso che la vita del corpo continui ad esistere: deve rimanere solo l’immagine. Forse Brahim vivrà, ma la sua sopravvivenza sarà qualcosa di spiacevole soprattutto per lui, qualcosa che romperà l’incanto. Quanto ad Abdullah. lui lo sapeva fin dall’inizio che la morte lo avrebbe atteso tanto da scrivere nella sua presentazione su Twitter che nessuna donna avrebbe dovuto contattarlo neppure in privato. Sapeva del suo destino e forse sperava di trovare alcune vergini dedite a lui in qualche assurdo paradiso.

Se vogliamo fermare questa spirale è certo importante bloccare la propaganda jihadista ma si deve anche pensare che lo scontro non è solo tra laicità e fanatismo religioso. Se ne combatte infatti un secondo tutto all’interno della psiche di alcuni soggetti: tra speranze di vita e seduzione della morte





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