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Una restituzione Questo libro ha una storia particolare che inizia più di quaranta anni fa.  Nel 1980, quando ero studente di filosofia ho avuto, insieme a qualche amico, quello che ancora mi sembra un grande privilegio: ero stato invitato a pranzo da Franco Fornari che, allora, era il docente di Psicologia Dinamica in Statale. Il privilegio dipendeva dal fatto che avevo contribuito a sbobinare alcune delle lezioni del suo corso così che confluissero nelle dispense su cui poi si sarebbe studiato. Fu in quell'occasione che Fornari mi disse: "Sto scrivendo qualcosa sul sogno di Irma: non so se diventerà mai una pubblicazione"" Perché no?" - chiesi io "Perché è il mio confronto con Freud: è quel che penso della psicoanalisi" Questa frase mi è rimasta in mente, ma poi il libro non uscì e di lì a pochi anni Fornari morì.   Ma qualche tempo fa, Matteo Lancini mi ha messo nelle mani un bel pacco di fotocopie, ricevute dal nipote di Fornari e scritte dal nonno

Palea est

  Per la morte di Ratzinger si muove ora una folta popolazione di fedeli, di giornalisti, di commentatori. Non foltissima però. E c’è un motivo. Ratzinger era un teorico, un teologo, poco propenso all’emozione e all’espressione spontanea del sentimento. A differenza di Bergoglio, Ratzinger non è quasi mai stato capace di muovere la commozione popolare, di manifestare una spontaneità comunicativa più diretta e, forse, questo, salendo al soglio pontificio, è davvero un limite. In fondo, nella storia, quasi nessun papa si è distinto per le sue doti teologiche: la riflessione sul divino e l’esercizio del potere non vanno evidentemente di pari passo. Per questo un Papa teologo è un’eccezione il cui senso, però, non dovrebbe sfuggire. L’operato di Ratzinger va in una direzione ben precisa: quello di intendere il cristianesimo come una religione che non rinnega ma anzi sottolinea e rivaluta il pensiero razionale dell’uomo. In una dimensione che sembra ricalcare il processo hegeliano che v

L'epoca del ritiro ottava parte: Scuola, pandemia, paranoia.

    Tra il 30 novembre e il primo dicembre 2021, nel giro di ventiquattr’ore, due provvedimenti contraddittori si sono succeduti con una velocità assolutamente incredibile persino per il disastrato mondo delle istituzioni scolastiche. Il primo stabiliva che, per sospendere la didattica in presenza e per passare alla DAD ci sarebbe dovuto essere un alunno positivo in classe. Questa procedura era quella adottata fino ai primi di novembre, quando una nuova determinazione aveva stabilito che, invece, per mandare una classe in DAD ci dovessero essere tre allievi positivi. Il ritorno a una misura più prudenziale sembrava giustificato e razionale viste le risultanze che, in Italia e in Europa, mostravano come l’incidenza del virus fosse in drammatico aumento anche in ragione del fatto che la variante omicron cominciava a diffondersi in modo preoccupante. Niente. In poche ore clamorosa marcia indietro.   Irrazionale alquanto: se in una classe si aspetta di avere tre positivi per mandarla a

L'epoca del ritiro: settima parte. E se, riaperte le scuole a giugno, le chiudessimo per tre settimane a marzo?

    Dentro questa immane tragedia che miete e mieterà vittime ancora per molto tempo una pericolosa guerra fra poveri sta dilaniando il mondo della scuola. Le due fazioni che si scontrano sono costituite da coloro che vogliono, costi quel che costa, mantenere sempre la didattica in presenza e coloro che invece vorrebbero una formazione a distanza fin tanto che i rischi di contagio non siano diminuiti. Ognuno ovviamente ha le sue ragioni, ma come spesso accade è difficile ascoltare le ragioni degli altri così i favorevoli al rientro accusano gli altri di essere degli scansafatiche mentre i secondi ribattono che i primi sono dei negazionisti e degli untori. In questo modo le fazioni si militarizzano e ne emerge uno scontro generazionale tra giovani che vogliono vivere sapendo di essere piuttosto immuni e anziani che non vogliono ammalarsi, fra madri che insistono per portare a scuola i loro figli e altre madri che, preoccupate, li tengono a casa. Gli interessi economici e mediati

Giovani che vogliono morire

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Qualche tempo fa, insieme ai colleghi Susi Citriniti, Emanuele Melissa e Roberta Spiniello, ho cercato di indagare la mentalità di quei ragazzi che, senza più badare a nulla, decidono di radicalizzarsi, di uccidere e di morire L’idea centrale è che, al di là delle motivazioni politiche o religiose, i giovani che decidono di morire e di uccidere siano dominati da una terribile ferita narcisistica e da un formidabile desiderio di riscatto: l’atto violento e disperato consente infatti un enorme riconoscimento in rete e il soggetto accede a una centralità mediatica postuma. Siamo convinti che queste dolorose emozioni dei radicalizzati abbiano molto in comune con quelle che abitano la mente di molti ragazzi che oggi coltivano la fantasia di darsi la morte. Senza un futuro, chiusi in una vita che non amano, dentro una mediocrità che si ripete assistono alla frustrazione delle loro aspettative flirtano con la morte chiedendo forse a lei ciò che la vita sembra negare. Ne parliamo martedì nov